un percorso attraverso l’Arte con i bambini e ragazzi del Laboratorio Stabile
INTERVISTA A ELENA IODICE – SOLFANARIA
Lavorare con l’infanzia e l’adolescenza comporta spesso uno “scambio”, un mettersi in gioco da entrambe le parti.
Cosa pensi di aver imparato rapportandoti con queste fasce d’età, e in che modo pensi che questo scambio possa aver avuto delle influenze sul tuo lavoro da architetto?
Senza paura di esagerare, posso dire che l’incontro con bambini e ragazzi ha rappresentato un’autentica rivoluzione nella mia vita. Sono arrivata a fare l’architetto dopo un percorso di studi importante. I risultati che ho raggiunto come architetto sono sempre stati direttamente proporzionali allo “sforzo” degli studi e della professione.
Poi, però, inaspettatamente mi sono ritrovata in una seconda elementare. Non sapevo molto di quanto stavo facendo, non avevo titoli o diplomi, nessuna formazione specifica, nessun 30 e lode a proteggermi dall’ignoto eppure tutto usciva da me in modo fluido, quasi che fosse quello il mio posto nel mondo.
Quando a Matisse, costretto su una sedia a rotelle dopo una operazione delicata allo stomaco che gli lede definitivamente le fasce muscolari , viene chiesto quale significato attribuisca alla sua nuova fase artistica, fatta di ritagli liberi di carte temperate lui così risponde:
“Quello che ho fatto prima della malattia, prima dell’operazione, sa sempre troppo di sforzo; prima avevo vissuto con la cintura allacciata. Quello che ho creato dopo rappresenta il mio vero io, libero e distaccato”.
Lessi quest’intervista pochi giorni dopo quel primo laboratorio e capii immediatamente che sarebbe stato così anche per me.
Ho continuato, continuo a fare l’architetto ma lo stare coi bambini mi ha liberato dai lacci che mi tenevano sicura dentro i territori conosciuti.
Perché hai iniziato a lavorare con l’infanzia?
Tutto è nato per caso: una maestra della scuola in cui avevo iscritto il mio primo figlio mi chiese se potevo portare un laboratorio d’Arte nella sua classe. Le risposi che, no, quello non era il mio lavoro. Io facevo l’architetto, l’arte era solo una passione relegata nei ritagli di tempo. Paola, questo il suo nome, continuò ad assillarmi, letteralmente fino a quando un po’ per togliermela di dosso come si fa con quelle mosche fastidiose, decisi di accontentarla, portando ai suoi bambini un progetto su Mirò. Studiai a lungo su una serie di monografie che mi ero appena procurata a Barcellona pensando di riuscire a controllare ogni passaggio. QUello che non avevo messo in conto era l’effetto rivoluzionario dei bambini su di me. Pietro, che allora viveva un momento personale molto difficile, mi venne presentato come “un bambino che detesta disegnare”. Quel giorno, avevo chiesto loro di raccontarmi uno dei loro sogni attingendo al vocabolario di Mirò. A Pietro, le immagini uscivano dalle mani, era lì, accanto al pittore spagnolo, quasi avesse compreso intimamente il senso del suo lavoro. Mi avvicinai e gli dissi che non potevo credere non amasse disegnare, come poteva dire di non esserne capace se quello che vedevo era pura meraviglia? Pietro si fermò, serissimo, si voltò e guardandomi fisso mi rispose: “Nessuno mi aveva mai detto che posso farlo anche così”.
Ecco, per me quello è stato il momento 0.
Qual è il valore pedagogico del lavoro di riflessione ed elaborazione attorno alle opere di grandi maestri come Picasso, Chagall o Miró?
Chi guarda un’opera d’Arte, diceva la “mia” Maria Lai, guarda se stesso.
Il confronto autentico con un artista e con la sua opera porta i bambini (e gli adulti con loro) a scoprire cose di sè che prima si ignoravano. E’ un viaggio che scardina, rivoluziona, ribalta. Ma i bambini si fidano, se sei accanto a loro, e si avventurano in questa ricerca capace davvero di cambiare. Scrive Clara, anni 11: “Non avrei mai pensato…che l’arte potesse entrare in me, o meglio che io potessi entrare nell’arte: è come se ci avessi indirizzato verso un grande vortice che avesse risucchiato noi e tutti e non ci facesse più uscire…Ti ringrazio perchè …devo a te un po’ della mia capacità nello scrivere, penso infatti che una piccola parte della scioltezza che ho nel farlo sia dovuta al lavoro fatto con te.”
Clara è lucidissima. Io sono solo un tramite. Non dice che è merito mio ma del lavoro fatto con me. E non imputa a questo una migliorata capacità grafica, quello è un corollario, ma la consapevolezza di avere un dono, quello della scrittura, che altrimenti non si sarebbe notato con la stessa intensità. Pietro e Clara sono il mio big bang.
L’arte si fa portatrice di messaggi, valori e idee ma talvolta può risultare apparentemente difficile o ermetica.
Come si rapportano i bambini e ragazzi di fronte ad un’opera d’arte?
L’arte non è difficile, questo i bambini lo capiscono. Certo, richiede tempo, richiede che facciamo cadere preconcetti e pregiudizi ma ogni quadro racchiude una voce, una storia che aspetta solo di essere raccolta. Ecco perchè i bambini non fanno fatica. Per loro l’opera d’Arte è una porta che conduce verso mondi altri da esplorare. Hanno una grande libertà, i bambini: possono tornare da quel viaggio e dirti: ” a me Picasso non piace” oppure “io non voglio essere così schivo come Joseph Cornell” ma nel prendere consapevolezza di ciò che li allontana, capiscono ciò che sono.
Alcuni genitori mi raccontano di viaggi dentro i musei per ritrovare Sonia (Delaunay) o Maria (Lai) quasi che quelle figure siano uscite dai libri di storia in cui le abbiamo inchiodate per farsi di nuovo presenze vive, accompagnatori saggi in questo viaggio che è la vita.
Per arrivare alL’elaborazione di un proprio pensiero, si parte da un foglio bianco. Quali sono i suggerimenti che dai, per non essere spaventati da quel “vuoto”?
L’incontro con il foglio bianco viene sempre dopo quello con l’artista, la sua vita e le sue opere. A quel punto, per molti, il ghiaccio è rotto. Davvero servono pochissime parole. Se la porta è stata aperta dopo, la maggior parte dei bambini corre ad esplorare. Ci sono bambini che tentennano, di solito sono quelli che non si fidano delle proprie mani, che hanno paura ad uscire dai bordi, dalle righe. Allora, serve prenderli per mano, convincerli che non accade niente che come diceva Pietro, si può disegnare anche così.
Un giorno, Nicola, bravissimo in disegno, deve disegnare ad occhi chiusi il suo autoritratto alla maniera di Paul Klee. Io osservo la sua mano muoversi veloce e quella meraviglia di arabesco che esce fuori dal suo controllo razionale. Ma appena Nico riapre gli occhi, scoppia a piangere. Non riconosce in quello “scarabocchio” qualcosa di bello così come sempre gli è stato insegnato. Allora prendo un libro su Klee e gli mostro i suoi disegni. Nico capisce, il pianto si placa.
Dopo una settimana, la mamma mi ferma per strada dicendomi che Nico non smette di disegnare ad occhi chiusi. Ecco, Nico si è liberato.