“il villaggio delle case sensibili” | Intervista di Lorella Barlaam ad Antonio Catalano
Gli “Universi Sensibili” sono la cosmogonia portatile di Antonio Catalano, artista/artigiano della casa degli Alfieri di Asti, cantiere aperto di esplorazioni tra teatro e arti visive. Una presenza singolare nel teatro italiano, che costruisce occasioni di poesia, trasfigurando storie e oggetti quotidiani. Dalla condivisione di questo sguardo è nato l’invito al viaggio con il Laboratorio Psicosociale Alcantara, nel 2011, poi approdato all’evento unico “Il Villaggio delle case sensibili”, che l’11 giugno al tramonto nel Complesso degli Agostiniani, a Rimini, ha dato momento e luogo al mondo “fragile” costruito dal lavoro di un anno. Un laboratorio?
«Una sorta di laboratorio, piuttosto, ma in un laboratorio c’è un maestro, ruolo cui non tengo» mi aveva raccontato Antonio, allora. «Piuttosto un’esperienza, vissuta con ragazzi che hanno una particolare, diversa attenzione nei confronti della realtà. Fatta di silenzio, di riflessione, insieme interiore e superficiale. Che alternano alto e basso, dicono cose stupende nella banalità, creando cortocircuiti. Io ho portato loro la mia esperienza, cercando il più possibile di non fare psicodrammi o esercizi ma di far succedere qualcosa sul momento. Arrivavo senza preconcetti, disarmato. Damiano ha fatto il grosso del lavoro, io sono arrivato qui e là, ho dato qualche idea, suggestioni, scarabocchi…»
Antonio, che cosa senti di aver portato con te da quell’esperienza?
«C’è proprio una cosa che ancora mi porto dietro, un disegno di Max. Ma ne riparleremo.
E senza dubbio è stato un incontro importante. Mi sono trovato di fronte a persone fragili, che sono parte della fragilità del mondo. Perché fragilità è un concetto ampio…
Tempo fa ho fatto un laboratorio in una scuola, e mi sono accorto che molti si vergognavano di dire la loro fragilità, che è invece capacità di guardarsi fragili, aperti nell’accettazione della fragilità.
Si scambia per debolezza e invece è una grande forza. Sono due le persone ‘fragili’ cui faccio sempre riferimento, Francesco d’Assisi da un lato e dall’altro Gandhi, che hanno avuto la forza di attraversare i secoli, di convincere il mondo… La fragilità, nei disabili, è un lato poetico che hanno, una capacità di ascolto del mondo intero… e così qualsiasi gesto, qualsiasi loro piccola danza sono carichi della poesia che dà loro la fragilità.
E in seno alla fragilità c’è anche l’errore, che non è vissuto come un peccato o una caduta, ma è invece una ricchezza da cui si può partire per esplorare le cose. C’è un grande insegnamento, in questo: quando si lavora su fragilità, errore e incapacità di comunicare, un altro elemento che entra dentro è l’indicibile. Loro insegnano a pensare che il teatro, quello profondo per davvero, non riesce a dire tutto, che esiste nel teatro l’impossibilità di dire tutte le cose e che è attraverso l’indicibile che si entra dentro alla forza che il teatro ha».
“Io ho portato loro la mia esperienza” dici. Quali sono, i tuoi ‘segreti’ di bottega?
«L’impossibilità di dire è anche un’impossibilità di fare talvolta; io semplicemente vedo queste cose intorno al loro mondo, vedo la frattura che c’è dentro queste persone, la vulnerabilità e l’accettazione, anche dell’impossibilità….
Quindi non ho segreti per fare le cose, navigo con loro nell’invisibile fatto di magia, dove le narrazioni, le rappresentazioni, le drammaturgie vanno smantellate, altrimenti si sciupa, si degrada quello che il teatro ha di suggestione evocativa…
Sono egoista, quando lavoro con loro; mi portano in quel loro mondo di invisibile indicibile e smetto di essere maestro… non lo sono mai stato del resto, ma mi pongo come uno che è lì con loro, a fare con loro, nella dimensione di scoperta della magia che quel teatro ha: un teatro primordiale, antico, con un fondo di necessità.
Una necessità misteriosa, interiore, che smantella il nostro concetto del teatro, messo in crisi nella drammaturgia, nella presenza di un attore che non ha una maestria professionale ma solo errore, con quella forza artistica dell’art brut che teorizzava Dubuffet… un attore che esiste in quel momento, magari balbetta, è scoordinato… loro non hanno nulla da raccontare: sono lì…»
IL VILLAGGIO DELLE CASE FRAGILI 2011 | Laboratorio Psicosociale – in collaborazione con Antonio Catalano
In che modo si crea la loro relazione con il pubblico?
«Oltre all’errore, alla fragilità espongono la loro vulnerabilità… un critico li massacrerebbe, non esiste un teatro così, esce dalle logiche della comunicazione: loro non “comunicano”. È la loro presenza ad essere carica di segni, c’entra il corpo, la corporeità, il fatto che mettono in discussione altri elementi, chiedono punti di ascolto differenti… dove arriva, allo spettatore, la danza lentissima che fa Ivan? Certamente non al solo sguardo, e non come una comunicazione narrativa o logica.
Io credo che arrivi in una zona tra veglia e sonno, di convalescenza. In uno stato mentale in cui i punti di ascolto usuali si smantellano, e questo è straordinario…»
…e come questo lavoro apre – se la apre – una diversa cifra teatrale?
«Che teatro è quello che facciamo?
Teatro/laboratorio, teatro come relazione, teatro come forma di comunicazione con i parenti… dopo tanti anni che lo faccio non ci ho capito molto, nel senso in cui mia mamma, con la sua sapienza che ho imparato, dice: “Questo è mio figlio, io l’ho fatto ma non ci ho capito niente”.
Direi che continuo a fare incontri in cui chiacchieriamo e in cui davvero cerco di capire, cominciando sempre da capo perché ogni volta che trovo persone come Max o Ivan mi smantellano ogni sicurezza.
Il mio è un teatro terremotato, come un fuoco d’artificio deflagrato in una pozzanghera, perduto…
Un altro concetto da considerare è quello di energia: loro non hanno l’angoscia di arrivare al pubblico di mostrare energia, né nulla… sono semplicemente lì e non vogliono dimostrare niente… E oltre a questi discorsi, bisogna parlare ancora dell’incanto e della meraviglia.
Ho trovato incanto in tre zone della vita degli uomini. In Brasile con i bimbi piccolissimi, in Portogallo nelle case di riposo, e nel mondo dei disabili… poi con gli ergastolani a Voghera, anche…
Sono mondi estranei, la primissima infanzia, l’estrema vecchiaia, il ‘fine pena mai’… ma anche legati tra di loro. Penso alla presenza interiore nella primissima infanzia, stupore e incanto sono lì… gli stessi delle persone che in ospizio o in carcere non vedono più niente del mondo esterno, sono confinati nel poco e nel pochissimo… queste situazioni mi mettono in discussione, mi chiedono di non essere più me, di stare accanto a loro, ed essere un po’ uno sciamano, per portarli in un altrove, in un universo parallelo sensibile che sta a fianco del nostro… dove ci sono anche i desideri di vita migliore.
C’è una zona di fantasia e di immaginazione che l’arte ha cercato di indagare da sempre… lì non esiste alfabeto, è un luogo dove le lingue non sono più utili, dove l’ascolto è ascolto del mondo… Noi siamo parte di un mondo complesso, in cui non siamo i padroni… questo ci ricordano le persone ‘invisibili’.
C’è come l’esigenza di mettersi in questa invisibilità e stare lì semplicemente; i vecchi lo fanno, sono lì ai margini della vita, abbandonati, percepiscono in modo diverso… e nella vecchiaia co-esistono tutte le età, si torna all’infanzia come luogo dello stupore della meraviglia…
I ragazzi disabili abitano proprio questo, perché sono degli errori, e proprio perché sono degli errori, sono incompiuti, imperfetti, ascoltano il mondo…
Anche le mie rappresentazioni, le mie opere hanno sempre qualcosa di sospeso, di incompiuto… finire vuol dire imporsi, imporre il proprio punto di vista…. invece bisogna avere il coraggio di sporgersi dal bordo del non finito, provarne la vertigine… Ma le persone sono spaventate, sono pigre… invece a me piacciono le palafitte, perché sono sospese e sotto ci passa l’acqua… Ma lo so che è un rifugio anche questo…
Insomma, questo è il percorso che faccio quando lavoro con loro, i miei compagni dell’essenziale…
In quella zona di pensiero dove c’è la ricerca di un alfabeto nuovo, uno smantellamento dei punti di percezione e le arti e il teatro sono insieme, dove si entra nei grandi mestieri artigianali in cui le persone lavorano con le mani. E in questa zona avvengono cose semplici, come in un gioco in cui c’è leggerezza, levità…
Non è una cosa per persone serie…»
E il disegno cui accennavi prima?
«Max mi ha regalato un disegno – ce l’ho qui con me – fatto su una plastica trasparente, in cui per la prima volta, come mi hanno detto i suoi genitori, ha disegnato un corpo nella sua totalità. Questo corpo, di qualità filiforme, mi ha suggerito il progetto che sto facendo adesso: “Mondi fragili”…
È un disegno che somiglia a quelli di Paul Klee, fatto di segni elementari, come le sculture di Giacometti, dell’essenzialità… ha la qualità delle cose che mostrano come potremmo trascendere la materia, straordinario. E, in alto e in basso, poi ha scritto: “Io sono una brava persona e mi dicono anche un bel ragazzo”… »